[senza titolo]
C'è una luce insostenibile, fuori.
Dopo giorni torridi oggi non c'è afa, ma la la luce è davvero troppa, troppa.
Non bastano le ore della notte per mettermi in pari con il lavoro, e quel giorno alla settimana - forse meno di uno - in cui dormo il giusto, mi sveglio con un cerchio alla testa come postumi da sbornia che non passano senza antidolorifici, o a volte quando arriva il tardo pomeriggio.
Mi sembra di correre, correre, correre, e quando non corro quella pressione addosso resta, c'è sempre.
Corro come un criceto, un ratto da laboratorio, eppure resto sempre lì, "lì" perché dire "qui" varrebbe a dire identificarmi in un luogo, o quantomeno ammettere di esserci fisicamente.
Da un po' non sento più il bisogno di un senso di appartenenza: a un luogo, a determinati amici, a un amore, e lo trovo un bene. Credo di avere una maggiore consapevolezza di me, un'autonomia, per la quale so che posso reggermi sulle mie gambe più di quanto non pensassi tempo fa. Per carità, ci sono persone fidate, ci sono rapporti molto maturi e profondi ma liberi, e se verrà qualcos'altro, qualcun altro, che siano effimeri o speriamo più duraturi, saranno qualcosa o qualcuno da incontrare, o in cui riconoscermi, non a cui correre dietro.
Ma c'è sempre un senso di incompletezza, un preludio di fallimento; c'è un luogo di origine e c'è una famiglia di origine che mi stanno stretti, che vorrei tenere ai margini ma sconfinano, dilagano e mi avvinghiano come se non fossero mai qualcosa da cui potermi distaccare davvero per tracciare i bordi del mio io.
La casa natia è l'ultima roccaforte di un ideale di famiglia unita ed estesa, facciata sbriciolata troppo facilmente da una vedovanza non voluta, un'omosessualità non voluta, una separazione non voluta: ne resta un uomo a cui pure voler bene in qualche modo, ma capriccioso come un monarca destituito e ostinato che vuole restare sul suo palco monoposto ad essere applaudito, o anche solo guardato.
Fuori della porta di casa, una terra di nessuno, una strada trafficata, e dopo un poco, il quartiere.
Un luogo dove si nasce già morti e niente cambia mai, come se tutto fosse fermo agli Anni Cinquanta, tranne i veicoli, i soldi, i vestiti, la tecnologia, roba strettamente contingentata all'epoca. Un posto piccolo, dove tutti sanno tutto di tutti e io non so niente. Un luogo dove la vita gira perché i maschi vanno al bar del quartiere, perché esiste la figa, il calcio sui maxischermi e tornei regionali di sport secondari dove inimicarsi qualcun altro. Un luogo dove la vita gira così, è sempre stato e sempre sarà, non c'è vita altra. Il centro è già un luogo esotico, pur chiuso in una morsa simile, e al di fuori del comune non esiste niente, o perlomeno niente di tanto appagante quanto il ritornare al bar del quartiere.
Quelle borgate che pure Pasolini abbracciava con una pietà, un amore misericordioso degni di un dio buono, o di una Vergine Maria, io le trovo tentacolari come il rione di Lenù, non-luoghi in cui non riconoscersi, eppure dove ritornare, o esserci trascinati, o da cui semplicemente non poter sfuggire, e così ricadere sempre, impantanati fino al collo con non si sa quanta consapevolezza. È un cedere al pianeta Solaris, all'illusione di stare bene che nutre solamente se stessa, è un eterno "vitelloneggiare", e cosa devo fare per prendere il treno?