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Sembrava una piccola piazzetta italiana kitsch così come amano immaginarla gli stranieri, somigliava ad uno dei tanti ristoranti italiani all'estero, e non solo, dalle scenografie tanto tipiche quanto stereotipate che quasi ti aspettavi di trovarci Lilli e il Vagabondo.
Un giro di soppalco che permetteva l'accesso alle stanze, un marciapiede rialzato a quasi un metro dalla piazzetta, ridisegnava il quadrangolo del perimetro, ripetendosi circa tre metri più in alto in una pedana/balcone che aveva la stessa forma e la stesso scopo.
Oltre, gli appartamenti.
Due piani di griglia di mattoni e porte e finestre perfettamente allineate nella più cruda urbanistica da motel; il terzo, per metà era identico ai precedenti, e per il resto occupato da pareti intatte di mattoni; forse, c'erano delle entrate sul retro.
Intravedere senza voglia né partecipazione, dietro le tapparelle smeraldo, storie torbide di coppie improvvisate, nel chiaroscuro nero e arancio di un tramonto che non sarebbe mai entrato lì, poi scendere ai tavoli per la cena borghese, a fantasticare ipotesi di shopping di lusso mediocre autoctono, mentre poco distante qualcuno dava le spalle a un qualche oratore per non vedere un televisore da due soldi ma scenografico quanto basta.
Proprio da quelle parti, la piramide a base quadrata disegnata da alcuni lampadari, sembrava scomporsi in una geometria sghemba, o, come era realmente, governata da una legge incomprensibile. I lampadari stessi, da quella prospettiva, sembravano occhi straniati, o in estasi, o fatti, che come un Magritte, o un Dalì, o una copertina dei Pink Floyd, si aprivano su un piano altro della realtà fisica. Come occhi di un grande fratello, o occhi di un dio, che scomodi e non invitati, interrogavano giusto i mattoni riguardo storie torbide.
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